
Una coppia in crisi si mette in viaggio verso la Macedonia del Nord dopo aver ricevuto la notizia del malore della madre del protagonista. Durante il tragitto, i due affronteranno tensioni e ricordi, intervallati da flashback del passato della famiglia di lui: dalla fuga del padre durante la guerra in Jugoslavia agli anni dell’infanzia vissuti con la madre e il fratello.
Questo è C’era una volta l’Est, il graphic novel firmato da Boban Pesov.
Pesov è nato in Macedonia del Nord ed è un immigrato di seconda generazione. Dopo aver studiato al liceo artistico di Alba e dopo essersi laureato in architettura al Politecnico di Torino, si è fatto conoscere dal grande pubblico attraverso YouTube e i social, per poi debuttare come fumettista. Abbiamo chiesto di raccontarci il suo lavoro e il suo paese d’origine in questa intervista.
Se dovessi raccontare C’era una volta l’Est in una sola, brevissima frase, quale sarebbe?
Un intreccio di viaggi da Est a Ovest: la storia di una famiglia immigrata che lega passato e presente.
Com’è nata l’idea di parlare della storia della tua famiglia?
Nel 2016, quando ancora gestivo il mio canale YouTube, ho registrato un video con mio padre per un progetto di divulgazione. Il tema era sfatare i luoghi comuni sull’immigrazione, ma ho deciso di affrontare l’argomento in modo diverso: una lunga chiacchierata con lui. Ascoltare i suoi aneddoti sulla clandestinità negli anni ’90 mi ha dato l’ispirazione per creare un fumetto basato sui suoi racconti. Quasi dieci anni dopo, eccoci qui!
Trasformare i propri familiari in personaggi universali è un’operazione delicata e complessa. Ci puoi raccontare com’è andata?
Fin dall’inizio, ho cercato di distaccarmi il più possibile per raccontare questa storia senza lasciarmi coinvolgere emotivamente. Ho ragionato semplicemente come un autore che narra le vicende di una famiglia che conosce poco o per niente.
Al centro di C’era una volta l’Est ci sono i legami familiari, ma si parla anche di chi sceglie di aiutare qualcuno in difficoltà. Ci puoi raccontare qualcosa di più su personaggi come Nino, Francesco e Luciana?
La figura di Nino incarna la condizione di molti cittadini jugoslavi che, all’indomani del conflitto, si rifiutarono di combattere contro persone da sempre considerate propri concittadini, al di là delle distinzioni etniche. La sua accoglienza nei confronti dei tre clandestini è caratterizzata da una naturalezza e un’affettuosità fraterna. Francesco e Luciana, d’altro canto, rappresentano la genuinità delle persone di campagna. Con un modesto sforzo e una grande generosità, offrono accoglienza a uno straniero, adoperandosi con dedizione per facilitare il suo insediamento in Italia e il ricongiungimento familiare nel più breve tempo possibile.
A differenza di molte persone che li circondano, i tuoi protagonisti vivono momenti difficili ma non cedono mai all’odio o al rancore. Come si fa ad acquisire questa capacità di andare oltre i pregiudizi?
Avendo vissuto numerose difficoltà, dapprima in Macedonia e poi in Italia come immigrati tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, questa famiglia ha sviluppato una consapevolezza profonda e articolata. Tale consapevolezza è evidente nella scena finale del libro. Nel 2001, al ritorno a casa, la famiglia incontra l’ex postino. Quando questi comincia a esternare il suo disprezzo per la popolazione albanese in Macedonia, Vera lo interrompe bruscamente, dimostrando che non intendono minimamente tollerare i suoi deliri e il suo odio.
È stato difficile evocare la storia recente della Macedonia del Nord e della ex Jugoslavia per un pubblico, quello italiano, che anche se ha assistito a quelle vicende le conosce – e le ricorda – poco?
Ho trovato molto più facile comunicare ai lettori e alle lettrici discorsi complessi, dalla guerra in Jugoslavia all’odio etnico, fino all’immigrazione passata e presente, raccontando le vicende attraverso le esperienze più intime di una singola famiglia.
C’era una volta l’Est comunica anche l’amore per il tuo paese d’origine. Ci indicheresti i posti che, secondo te, vale la pena visitare e perché?
Consiglio davvero di intraprendere un viaggio attraverso tutta la penisola balcanica. Solo così potrai assaporare ogni sfumatura delle moltitudini di culture che si uniscono e si mescolano in quest’area. L’intera cultura slava del sud è a mio parere affascinante: dalle influenze storiche dell’Impero austroungarico in Slovenia e Croazia, fino alla profonda tradizione ottomana ancora presente in Macedonia del Nord, Serbia e Kossovo. Non mi limiterei ad un solo Paese, perché la ex Jugoslavia merita di essere riscoperta nella sua interezza.
Nel graphic novel vengono citati alcuni piatti tipici della cucina macedone, che fanno venire l’acquolina in bocca. Qual è il tuo preferito in assoluto?
Ahimè, ho un debole per il burek: questa deliziosa pietanza cotta al forno, ben unta di olio di semi di girasole e farcita con ricotta salata. Esiste anche la versione con carne macinata di maiale, o di agnello per la comunità musulmana bosniaca. È una pietanza da accompagnare rigorosamente con un barattolo di yogurt acido (simile a quello greco).
In questo lavoro hai maturato uno stile grafico efficace e garbato, ricco di dettagli ma mai dispersivo, reso personale anche da una scelta cromatica vivaci ma anche “vintage”. Ci sono autori o autrici cui ti sei ispirato, o che comunque sono i tuoi punti di riferimento?
Nel corso degli anni, ho sempre cercato di far evolvere il mio stile, fino ad arrivare a quello adottato per il libro. Qui, i colori sono stati scelti accuratamente per rappresentare al meglio ciò che intendevo raccontare. Per la semplicità nella realizzazione dei personaggi, in particolare dei volti, ho tratto ispirazione da autori come Paco Roca, che ho sempre apprezzato per la sua capacità di rendere i personaggi estremamente espressivi con pochi tratti. Riguardo alle ambientazioni, ho sempre avuto un approccio cinematografico: mi sono immaginato come un regista che piazza la cinepresa fissa e fa muovere i personaggi in scena. Non essendo un amante dei virtuosismi, questo si nota chiaramente nelle scene che rappresento.
Come hai lavorato a questo graphic novel? Ci racconti qual è stato – e qual è – il tuo metodo di lavoro?
Devo dire che il processo è stato stranamente sereno. Certo, ci sono stati momenti di pressione, ma erano dovuti principalmente alla mia attività di famiglia, che a volte mi teneva lontano dalla lavorazione del libro. Ringrazio infinitamente Tunué per la sua paziente attesa e per Daniel Spanò, l’editor che mi ha affiancato, per la costante comprensione e professionalità anche nei momenti in cui non riuscivo a mantenere la continuità che avevamo pianificato nel lavoro.
C’è un aneddoto legato alla lavorazione di C’era una volta l’Est che ti va di condividere?
Credo che tutti i fumettisti e autori abbiano la loro “tavola maledetta”. Nel libro, la mia è la pagina 90. Quella tavola mi ha fatto tribolare parecchio, non tanto per la sua complessità intrinseca, ma perché, dopo averla già finita, l’avevo persa e mi toccava rifarla. Il solo pensiero di ridisegnarla mi rendeva nervoso, quindi l’ho realizzata e colorata per ultima. Una scelta, ovviamente, più che sbagliata.
C’è un aspetto di questo fumetto di cui vai particolarmente fiero?
Sì, nonostante io racconti una storia drammatica per certi versi, ho cercato comunque di lasciare un briciolo di speranza e positività.