intervista a Gianfranco Manfredi - Volto nascosto

Perché non è facile parlare di Italia: intervista a Gianfranco Manfredi

Gianfranco Manfredi è stato cantautore, scrittore, sceneggiatore, attore e fumettista. Nella sua lunga e variegata carriera ha creato Magico Vento, la celeberrima serie Bonelli di ambientazione western, e Volto nascosto, una saga ambientata tra l’Italia e l’Etiopia nel periodo coloniale con la quale ha rivoluzionato il fumetto seriale.

In omaggio al suo lavoro, condividiamo l’intervista pubblicata nel volume Italia da fumetto di Francesco Fasiolo e rendiamo disponibile il capitolo da cui è tratta, intitolato La rivoluzione di Volto Nascosto.

Una delle particolarità di Volto Nascosto è il ruolo da protagonista dato alla storia italiana. Perché il fumetto popolare e di evasione in Italia è così raramente ambientato nel nostro paese?

È una singolare bizzarria. Ed è una domanda che mi hanno posto spesso anche editori e autori esteri: come mai voi italiani continuate a produrre storie ambientate altrove? Ci troviamo di fronte a paradossi: ad esempio il recente fumetto sulla saga dei Borgia realizzato da un’autrice giapponese. Eppure in Italia c’è interesse per i racconti sulla nostra storia, basti pensare al grande successo delle lezioni a teatro di Dario Fo su Raffaello, Bello figliolo che tu sè. Quando lavoravo a Volto Nascosto sentivo che il pubblico era più che pronto per una serie a fumetti di ambientazione italiana. Perché abbiamo aspettato così a lungo? I motivi sono secondo me soprattutto di tipo storico. La storia del nostro fumetto è stata segnata […] dal fascismo, che ha imposto eroi italiani in chiave apologetica, censurando quegli autori di fumetti e narrativa po- polare quando mettevano in campo personaggi americani o stranieri, spesso italianizzati con esiti grotteschi. Questo ha portato a un risentimento e a una voglia di libertà da parte degli autori, che nel dopoguerra hanno fatto esattamente il contrario.

Nel dopoguerra può esserci stata una reazione a certe imposizioni culturali del regime fascista, ma questa non può essere l’unica spiegazione…

Non lo è. Gli autori nel dopoguerra hanno sviluppato storie in contesti non italiani anche perché affrontare le nostre questioni interne sollevava dibattiti politici infiniti. Permaneva una certa pressione sugli autori, per cui tutti si sentivano più tranquilli nel parlare dell’America. È evidente che è più semplice raccontare una storia di gangster, un terreno fantastico, un mondo a noi lontano, che una storia di mafia. L’autore si sentiva da un lato più libero, dall’altro meno esposto. Ciò che si tollerava nel western e in altri generi avventurosi si sarebbe tollerato molto meno per fumetti di tipo realistico che intervenissero nella contemporaneità. Quindi ci si è mantenuti su un territorio di fumetto molto ben fatto, con un’idea molto evasiva dell’avventura, che faceva comodo a tutti. Da un lato permetteva agli autori di sfogare ogni tipo di fantasia, sottraendosi a maglie censorie, dall’altro il fumetto dava molti meno problemi al governo di quanti non ne desse il cinema italiano, che invece interveniva direttamente sul costume e sulla nostra contemporaneità. Questo atteggiamento è continuato a lungo perché è diventato una tradizione. Però abbiamo anche esempi degli anni Settanta, come Valentina di Crepax: storie italiane con personaggi italiani avevano dimostrato che i lettori erano ben disponibili ad accettarle. Il pubblico era pronto, ma erano casi piuttosto isolati. D’altronde non possiamo nemmeno dire che ora sia improvvisamente nato un fumetto che parla dell’Italia di oggi. Forse non ci sono neanche tutti questi editori entusiasti di pubblicarlo. Penso ad esempio a Romano, un personaggio di Alessandro Bilotta che eredita tematiche neorealiste: un pugile di borgata che ha un’amante prostituta che ricorda la Magnani, ambientato nel dopoguerra negli anni Cinquanta. Questo fumetto finora è stato pubblicato in Francia e non in Italia. Per me è stato più facile, perché raccontando una storia epica c’è più avventura, fantasia, anche se certe problematiche si avvertono lo stesso c’è un pochino di distacco. E poi la Bonelli era interessata da anni a un prodotto che trattasse i temi del post Risorgimento in Italia.

Com’è nata l’idea di trattare questo argomento?

Sono particolarmente affezionato a quel periodo, ne avevo già parlato in alcuni miei romanzi, ma c’era un aspetto che non avevo mai considerato, quello della prima avventura coloniale italiana in Africa. All’inizio avevo pensato di farne un altro romanzo storico. Però non ero convinto del mezzo. Scrivendo Il piccolo diavolo nero, ambientato nella Milano di fine Ottocento, mi ero reso conto che il parlare di storia recente che riguarda le nostre città presentava qualche difficoltà per i lettori, che faticavano a ritrovare ambientazioni dimenticate, strade che non ci sono più. A Milano erano aperti i navigli, era una città completamente diversa, che chi leggeva non riconosceva nei termini in cui ne parlavo io. D’altronde il paesaggio urbanistico è stato in un secolo completamente sfigurato e quindi ho pensato che per lettori giovani e abituati a una cultura più visiva era una grande occasione per poterne fare un feuilleton a fumetti.

Lei voleva raccontare questa storia e ha pensato che il mezzo migliore fosse il fumetto…

Sì, la narrativa a fumetti. Uso questo termine perché oggi il fumetto bonelliano è visto come narrativa a tutti gli effetti, ha un pubblico giovanile e non solo, e si appoggia su una tradizione consolidata. È erede della narrativa popolare italiana che ha conosciuto il suo momento più alto, dal punto di vista della diffusione, con Salgari e i suoi imitatori. E quindi ho pensato fosse il mezzo che si confaceva di più a questa storia. Pensavo a un romanzo epico con grandi battaglie. Per rimanere al campo delle arti visive, è un tipo di cinema che non si fa quasi più perché richiede molte comparse e registi capaci di dirigere grandi masse di persone. Era il genere del kolossal epico, una volta importantissimo.

Chi è il lettore tipo di Volto Nascosto?

Oltre ad appassionati di fumetti ho ricevuto lettere da studiosi che hanno approfondito quel periodo storico. Ho capito che il fumetto aveva suscitato interesse sul territorio della didattica e della ricerca. Mi hanno scritto anche molti esperti di questioni militari, o militari stessi, lettere intelligenti e molto critiche della conduzione che fu fatta allora della guerra coloniale. Se il fumetto ha meno visibilità rispetto a un romanzo, credo che abbia una capacità di influenza nella vita di una persona così grande che può essere paragonato solo ad alcune canzoni. Mi spiego: Tex dura da sessant’anni, ci sono scrittori di sessant’anni fa completamente dimenticati. Questo vuol dire che fare il lavoro più marginale dell’autore di fumetti non vuol dire avere meno influenza sul corpo sociale rispetto a uno scrittore.

Articoli correlati